STATI UNITI - CUBA UN ANNO DOPO

Publié le par Centro di Solidarietà Internazionalista

Obama e l'Avana, le speranze perdute
Il segno del nuovo governo Usa è la continuità Molti bei discorsi sul «new beginning», qualche gesto iniziale. Poi più nulla. Il ruolo Usa nel golpe in Honduras è stato il cimitero dei propositi di cambiamento. Il gelo è tornato a scendere nei rapporti Washington-l'Avana. E l'inclusione di Cuba nella nuova lista dei «paesi patrocinatori del terrorismo» è stata la classica goccia...
Quattro gradi all'Avana. Come se a Roma facesse 10 sotto zero. Una coltre di gelo è scesa su Cuba. Il grande freddo ha gelato anche le speranze di un cambio nei rapporti con gli Stati uniti di Obama.
Forse aveva ragione il vecchio Fidel quando parlando del presidente appena eletto diceva che sì, sembrava intelligente e simpatico ma che negli Stati uniti una cosa è il presidente e un'altra è «l'impero». E non si riferiva solo alle burrascose relazioni fra i due paesi congelate da più di mezzo secolo.
E' bastato un golpe in un paese marginale dell'America centrale a smasscherare il gioco. «Nessuno - come ha scritto l'Economist - poteva immaginare che il piccolo Honduras sarebbe stato il cimitero sia della diplomazia dell'America latina sia del tentativo di Barack Obama di un approccio amichevole con i vicini. Ma questo è successo».
Dopo qualche «messaggio» lanciato nella campagna elettorale, qualche «gesto» iniziale e molti bei discorsi, il segno della presidenza Obama, a un anno dal suo insdiamento, è uno e uno solo: la continuità con i suoi nove predecessori alla Casa bianca.
Forse esaminando punto per punto il programma e le promesse del «candidato» Obama su Cuba - come ha fatto giorni fa la Bbc - non si può dire che li abbia traditi. La sua vera responsabilità è un'altra, e non piccola: avere suscitato enormi aspettative negli Stati uniti e ancor di più, dopo gli 8 devastanti anni di G.W. Bush, nel resto del mondo senza avere poi la forza o la volontà di riempirle di contenuti concreti.
I sorrisi amichevoli, il «new beginning» promesso da Obama nel vertice delle Americhe di aprile nell'isola di Trinidad - quando il venezuelano Hugo Chavez gli regalò Le vene aperte dell'America latina, il classico di Eduardo Galeano che di certo non avrà avuto il tempo di leggere -, sono svaniti nel «cimitero» dell'Honduras, prima, durante e soprattutto dopo il golpe di giugno, la cui regia reca la firma inconfondibile dell'amministrazione Obama.
Con molte altre gatte da pelare, l'America latina non è, come si dice, una priorità neanche per Obama. E ancor meno lo è Cuba, che - insieme - è o sarebbe il capitolo più facile e il più difficile da cambiare nel «nuovo inizio». Il più facile per il grottesco (e osceno) anacronismo dei rapporti imposti dagli Stati uniti per più di 50 anni, il più difficile per il valore simbolico - e quindi politico-elettorale - che implica l'andare a toccare quei rapporti.
A questo punto, con Cuba, Obama assomiglia molto al pessimo Bill Clinton. Un altro «piacione» che però fu quello che firmò nel '93 The Cuban Democratic Act, meglio noto come la Legge Torricelli, e nel '96 la legge Helms-Burton per stringere a livelli parossistici l'embargo del '62-'63 (firmato da un altro piacione democratico come John Fitzgerald Kennedy).
Con Clinton fu coniato l'espressione «binario 2», che voleva dire promuovere (anche, oltre al resto) l'interscambio in compo culturale, artistico, religioso per influire (e interferire) sul processo politico cubano.
Con Obama l'embargo economico, commerciale e finanziario non sarà toccato. D'altra parte, si risponderà, non ha mai promesso di toccarlo e anzi ha detto di considerarlo «una leva» per forzare cambi nel sistema castrista e portare «la democrazia» a Cuba. Anche se le «eccessive» speranze suscitate dal primo presidente afro-americano, hanno fatto credere a molti che almeno - pur senza andare a sfrugugliare il Congresso su un tema così sensibile e per di più non «prioritario» - avrebbe spuntato i denti più anacronistici del blocco. Quei denti sono ancora lì, intatti. Neppure qualche gesto tutto sommato innocuo. Come sarebbe stato, ad esempio, cancellare con un colpo di penna le abnormi condanne imposte dai tribunali di Miami contro i 5 agenti dell'antiterrorismo cubano, da oltre 10 anni in carcere negli Usa, per essersi infiltrati nelle rete - quella sì terrorista - dei settori più ultrà dell'anti-castrismo della Florida. O togliere Cuba dalla lista dei «paesi terroristi» in cui la mise Ronald Reagan nell'82, in piena guerra fredda nel mondo e in piena guerra sporca in Centramerica.
E questa è stata la classica goccia.
I cubani non hanno mandato giù l'inserimento di Cuba - unico paese non islamico - nella nuova lista dei 14 paesi «patrocinatori del terrorismo» stilata dal dipartimento di stato dopo il fallito attentato della vigilia di Natale sul volo Amsterdam-Detroit. Il ministro degli esteri cubano Bruno Rodriguez ha convocato il responsabile della Sezione di interessi Usa all'Avana, Johnatan Farrar, per chiedergli spiegazioni ed esigere «l'immediata esclusione» di Cuba da quella lista, poi il ministero degli esteri dell'Avana ha diffuso una nota di protesta durissima e circostanziata ribattendo una per una le motivazioni addotte dal diparimento di stato. Che sono e suonano oltre che false e speciose, ridicole. Come quella secondo cui l'inclusione è giusta perché Cuba ha dato e dà rifugio a «terroristi dell'Eta» basca, a membri delle Farc e dell'Eln colombiani, a qualche profugo in fuga dalla giustiza Usa (qualcuno ne ha contati 77), come i «torroristi» del gruppo Machetero di Porto Rico o Assata Shakur, un ex delle Black Panthers. Ai cubani è stato facile rispondere che gli ex-terroristi baschi sono andati a Cuba su richiesta e a seguito di un accordo con il governo spagnolo dell'84 (e «senza mai utilizzare» il territorio cubano per le loro «attività politiche»); che la presenza di esponenti della guerriglia colombiana si deve al ruolo «riconosciuto e rispettato» di Cuba come «facilitatore» di colloqui di pace dell'interminabile conflitto interno della Colombia; che, quanto ai profughi ricercati dalla giustizia Usa, «terroristi di nessun paese hanno mai trovato rifugio o risiedono a Cuba».
E hanno avuto gioco facile, i cubani, a ricordare che semmai sono molti «i terroristi e gli assassini» che «risiedono impunemente» negli Usa. Come i ben noti Luis Posada Carriles e Orlando Bosh, riconosciuti responsabili di aver dinamitato un aereo di linea della Cubana de Aviacion con dentro 73 persone nel '76. Impuni e liberi sulle spiagge di Miami. E' Obama che (almeno) con Cuba merita la lista nera.
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