Francesca Marretta Gerusalemme Fino a pochi anni fa, quando si svegliava la mattina, Suher Hashimeh, 36 anni, prendeva il caffé arabo sul terrazzino della sua casa di Azzarie, antico villaggio palestinese situato tra Gerusalemme e Betania. Si sedeva al tavolino appena fuori la cucina accanto alla mamma per quel rito quotidiano. Le piaceva voltarsi verso sinistra e guardare in lontananza la valle del Giordano e a destra la palma solitaria innalzata sulla terra arsa dal sole tutto l'anno e più distanti i cipressi e la vegetazione mediterranea della chiesa cristiana. Quando ci riceve di buon mattino, il caffé lo prendiamo nel salotto, arredato in maniera sobria. Poltrone di velluto beige, tavolino, due oli su tela alla parete che riproducono scene di vita quotidiana nella Città Vecchia di Gerusalemme. Suher e la mamma sono ancora in pigiama. Beviamo il caffè al chiuso, nonostante il sole splendente che c'è fuori. Le due donne non si affacciano più. Perché a pochissimi metri da casa, si erge il muro di separazione costruito dai governi israeliani. Un'opera edilizia avviata tra il 2002 e il 2003, che sarà definitivamente completata l'anno prossimo. Ad Azzarie la costruzione del muro è già ultimata. Fino a settembre 2009 c'erano ancora dei punti di passaggio aperti per arrivare nella Città Santa. In linea d'aria il Monte degli Ulivi da casa di Suher, con in tasca sempre pronta la sua carta d'identità blu di residente nell'area di Gerusalemme da mostrare ai check-point, è vicinissimo. Se non c'è traffico ci si impiegano cinque, dieci minuti in auto. Solo che adesso la strada di accesso a Gerusalemme est è bloccata dal muro. Per arrivarci bisogna mettersi in fila al check-point ed essere sottoposti ai controlli dei metal detector presidiati da soldati israeliani armati. "Da quando hanno completato il muro ad Azzarie, la mia vita e quella della mia famiglia sono completamente cambiate, sconvolte", dice Suher. "Siamo in otto. - continua - Alcuni dei miei fratelli e sorelle vivono da questa parte del muro, altri al Monte degli Ulvi e nella Città Vecchia. Mia madre vedeva i nipoti quasi tutti i giorni. Ma ora per andare a Gerusalemme, a meno di non doverci andare per lavoro come me, tutti i giorni, ci pensi dieci volte su. Lo stress del check-point ti fa passare la voglia. Ecco perché hanno costruito il muro, per tenerci fuori, per relegarci in aree circoscritte. Come puoi vedere tu stessa, qui il muro passa tra le case dei palestinesi. Ma'ale Adumim (insediemnto israeliano, ndr) è qui vicino, ma Azzarie non minaccia certo la sicurezza di chi ci vive. Questo muro serve solo ad inglobare altra terra palestinese in Israele". Il muro che passa per Azzarie, villaggio meta dei pellegrini cristiani in visita alla tomba di Lazzaro, separa palestinesi da palestinesi. Separa anche i bambini che frequentano l'asilo delle Suore della Nigrizia. La strada d'ingesso al complesso religioso è ora bloccata dal muro. In seguito a ricorsi alla magistratura israeliana e trattative con le autorità dello Stato ebraico portate avanti a livello diplomatico con l'intervento del Vaticano, ora in un pilone del muro viene aperta ogni mattina una porticina di metallo presidiata dai soldati israeliani. I genitori lasciano i bambini da un lato del muro e le suore li accolgono dall'altra parte. Al pomeriggio, stesso percorso a ritroso. Se volessero lasciare o andare a prendere i bambini al cancello dell'asilo i genitori dovrebbero passare per il check-point. Percorso che facciamo insieme a Suher. Suo nipote Ahmed di sei anni, si trova appena oltre il muro, a giocare con gli altri bambini dell'asilo. "Voglio farti vedere che significa per me andare al lavoro ogni giorno o passare a salutare il mio nipotino dalle suore", dice Suher. Prendiamo un taxi collettivo che ci porta al "Terminal", costruzione a metà tra come ci si immagina il varco d'ingresso a un penitenziario e un'aeroporto. Porte girevoli di metallo in cui si passa uno alla volta, metal detector ai raggi X per gli effetti personali, borse, valige, o qualunque altra cosa trasporti e varco con i sensori per il passaggio delle persone. Suher affronta ogni giorno l'umiliazione dei controlli per andare al lavoro al Media Central, organizzazione israeliana che si occupa di assistenza ai giornalisti stranieri. I suoi colleghi al lavoro, con cui ha un buon rapporto, sono israeliani, come i soldati che vede ogni giorno al check-point. Ma, spiega Suher, c'è una grande differenza tra gli israeliani oltre i trent'anni e i ragazzi ventenni che controllano i palestinesi ai check-point trattandoli senza alcun rispetto. Si tratta di una generazione cresciuta tra due Intifada, in cui da una parte e dall'altra non ci si conosce più. Che ha reso palestinesi e israeliani solo dei nemici, aggiunge Suher. "Io vorrei che si tornasse a prima di Oslo. - ci spiega - Vivevamo meglio allora. Nonostante l'occupazione esistevano rapporti umani quotidiani tra israeliani e palestinesi, non solo scanditi dal lavoro. Gli israeliani potevano andare a Ramallah e i palestinesi a Tel Aviv. Ora che c'è questo muro che nega sul terreno lo Stato palestinese sarebbe meglio che ci fosse uno Stato unico". Ci infiliamo nelle barre di metallo. "Qualche settimana fa sono tornata indietro - dice Suher - ho avuto problemi con una soldatessa allarmata perché suonava l'allarme". "Mi hanno chiesto di togliermi persino gli anelli, la collana e poi le scarpe. - continua - Io parlo ebraico e potevo comunicare con i soldati. Nonostante questo mi hanno trattata malissimo. Tu pensa cosa succede alle signore anziane che parlano solo arabo, trattate in malo modo da ragazzini. Ho avuto una discussione con la soldatessa e ho preso il telefono per chiamare il portavoce dell'esercito, che sento spesso per il mio lavoro. La ragazza col fucile mi ha urlato di non azzardarmi a telefonare. Così ho fatto marcia indietro. Ho chiamato l'ufficio e il mio capo ha mandato un taxi privato a prendermi. Abbiamo protestato formalmente, ma non è valso a nulla. Questa è la vita di un paestinese". Suher potrebbe sembrare italiana, araba o anche israeliana. Ha capelli corvini folti, labbra carnose che evidenzia in maniera delicata con un lip-gloss naturale sulla carnagione chiara. Indossa una camicetta attillata bianca su pantaloni neri e nello zainetto tiene il golfino per la sera, quando in autunno la temperatura scende di botto appena dopo il tramonto. Uscite dal check-point, prendiamo un altro taxi che ci porta all'asilo delle suore che avremmo potuto raggiungere in due minuti se non ci fosse stato il muro. I bambini giocano in cortile all'ombra dei piloni, abbelliti da questo lato dai grandi murales colorati fatti dipingere dalle suore. Sul grigio del cemento è stata passata vernice color vaniglia, su sono successivamente stati dipinti animali, fiori, alberi. Le suore raccontano che quando piove i bambini si bagnano e rischiano di prendersi un malanno perché devono passare a piedi dal varco nel muro. "Noi siamo lì con gli ombrelli, ma, sa sono 52 alunni, non è una cosa semplice", dice una suora di origine egiziana che come le altre parla italiano, ma non vuole che si scriva il suo nome. Le future generazioni di bambini di Azzarie invece che dalle suore della Nigrizia, passeranno l'infanzia in altri asili, dall'altra parte del muro. Nel 2004, la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, ha decretato illegale questa berriera i cui blocchi di cemento, che inglobano i palestinesi della West Bank e Gerusalemme in veri e propri "bantustan", raggiungono anche gli otto metri d'altezza. La città di Qalqilia è stata la prima ad essere completamente circondata dal muro. Non a caso di tratta di una zona il cui sottosuolo è ricco di risorse idriche. "Se gli israeliani volevano costruire un muro per la loro sicurezza, perché non lo hanno eretto sulla Green Line? Nessun palestinese si sarebbe lamentato", dice Shurer. Parole che in questi anni abbiamo sentito ripetere da tanti. "Nel 2003 sono stata a Berlino e sono andata al museo dove ci sono i flimati sul muro", racconta Suher mentre raggiungiamo Gerusalemme est. "Mi sono messa a piangere guardando le immagini di quando quel muro è stato costruito e di come è caduto. Di come la gente ha sofferto. Ed ho pensato, all'epoca, che quella sarebbe stata la mia nuova realtà. Ora che hanno completato il muro accanto a casa mia, è un fatto compiuto. Ma il muro di Berlino è stato costruito quando c'era la cortina di ferro invisibile e il mondo era diviso in due blocchi. Questo muro in Palestina è arrivato nell'era della globalizzazione, in cui ogni barriera è annullata in tempo reale dalla comunicazione tra gente di tutto il mondo. Per questo non riesco a credere che un giorno cadrà. Pensavamo di poterne fermare la costruzione, di poter fermare questo orrore. Invece è tutti i giorni davanti ai nostri occhi. Ecco perché al mattino non mi metto più al sole a bere il caffé". |