PALESTINA: LA VITA QUOTIDIANA AI TEMPI DEL MURO

Publié le par Centro di Solidarietà Internazionalista

Gerusalemme
Fino a pochi anni fa, quando si svegliava la mattina, Suher Hashimeh, 36 anni, prendeva il caffé arabo sul terrazzino della sua casa di Azzarie, antico villaggio palestinese situato tra Gerusalemme e Betania




Francesca Marretta
Gerusalemme
Fino a pochi anni fa, quando si svegliava la mattina, Suher Hashimeh, 36 anni, prendeva il caffé arabo sul terrazzino della sua casa di Azzarie, antico villaggio palestinese situato tra Gerusalemme e Betania. Si sedeva al tavolino appena fuori la cucina accanto alla mamma per quel rito quotidiano. Le piaceva voltarsi verso sinistra e guardare in lontananza la valle del Giordano e a destra la palma solitaria innalzata sulla terra arsa dal sole tutto l'anno e più distanti i cipressi e la vegetazione mediterranea della chiesa cristiana.
Quando ci riceve di buon mattino, il caffé lo prendiamo nel salotto, arredato in maniera sobria. Poltrone di velluto beige, tavolino, due oli su tela alla parete che riproducono scene di vita quotidiana nella Città Vecchia di Gerusalemme. Suher e la mamma sono ancora in pigiama. Beviamo il caffè al chiuso, nonostante il sole splendente che c'è fuori.
Le due donne non si affacciano più. Perché a pochissimi metri da casa, si erge il muro di separazione costruito dai governi israeliani. Un'opera edilizia avviata tra il 2002 e il 2003, che sarà definitivamente completata l'anno prossimo. Ad Azzarie la costruzione del muro è già ultimata.
Fino a settembre 2009 c'erano ancora dei punti di passaggio aperti per arrivare nella Città Santa. In linea d'aria il Monte degli Ulivi da casa di Suher, con in tasca sempre pronta la sua carta d'identità blu di residente nell'area di Gerusalemme da mostrare ai check-point, è vicinissimo. Se non c'è traffico ci si impiegano cinque, dieci minuti in auto. Solo che adesso la strada di accesso a Gerusalemme est è bloccata dal muro. Per arrivarci bisogna mettersi in fila al check-point ed essere sottoposti ai controlli dei metal detector presidiati da soldati israeliani armati.
"Da quando hanno completato il muro ad Azzarie, la mia vita e quella della mia famiglia sono completamente cambiate, sconvolte", dice Suher. "Siamo in otto. - continua - Alcuni dei miei fratelli e sorelle vivono da questa parte del muro, altri al Monte degli Ulvi e nella Città Vecchia. Mia madre vedeva i nipoti quasi tutti i giorni. Ma ora per andare a Gerusalemme, a meno di non doverci andare per lavoro come me, tutti i giorni, ci pensi dieci volte su. Lo stress del check-point ti fa passare la voglia. Ecco perché hanno costruito il muro, per tenerci fuori, per relegarci in aree circoscritte. Come puoi vedere tu stessa, qui il muro passa tra le case dei palestinesi. Ma'ale Adumim (insediemnto israeliano, ndr) è qui vicino, ma Azzarie non minaccia certo la sicurezza di chi ci vive. Questo muro serve solo ad inglobare altra terra palestinese in Israele".
Il muro che passa per Azzarie, villaggio meta dei pellegrini cristiani in visita alla tomba di Lazzaro, separa palestinesi da palestinesi. Separa anche i bambini che frequentano l'asilo delle Suore della Nigrizia. La strada d'ingesso al complesso religioso è ora bloccata dal muro. In seguito a ricorsi alla magistratura israeliana e trattative con le autorità dello Stato ebraico portate avanti a livello diplomatico con l'intervento del Vaticano, ora in un pilone del muro viene aperta ogni mattina una porticina di metallo presidiata dai soldati israeliani. I genitori lasciano i bambini da un lato del muro e le suore li accolgono dall'altra parte. Al pomeriggio, stesso percorso a ritroso. Se volessero lasciare o andare a prendere i bambini al cancello dell'asilo i genitori dovrebbero passare per il check-point. Percorso che facciamo insieme a Suher. Suo nipote Ahmed di sei anni, si trova appena oltre il muro, a giocare con gli altri bambini dell'asilo. "Voglio farti vedere che significa per me andare al lavoro ogni giorno o passare a salutare il mio nipotino dalle suore", dice Suher.
Prendiamo un taxi collettivo che ci porta al "Terminal", costruzione a metà tra come ci si immagina il varco d'ingresso a un penitenziario e un'aeroporto. Porte girevoli di metallo in cui si passa uno alla volta, metal detector ai raggi X per gli effetti personali, borse, valige, o qualunque altra cosa trasporti e varco con i sensori per il passaggio delle persone.
Suher affronta ogni giorno l'umiliazione dei controlli per andare al lavoro al Media Central, organizzazione israeliana che si occupa di assistenza ai giornalisti stranieri. I suoi colleghi al lavoro, con cui ha un buon rapporto, sono israeliani, come i soldati che vede ogni giorno al check-point. Ma, spiega Suher, c'è una grande differenza tra gli israeliani oltre i trent'anni e i ragazzi ventenni che controllano i palestinesi ai check-point trattandoli senza alcun rispetto. Si tratta di una generazione cresciuta tra due Intifada, in cui da una parte e dall'altra non ci si conosce più. Che ha reso palestinesi e israeliani solo dei nemici, aggiunge Suher. "Io vorrei che si tornasse a prima di Oslo. - ci spiega - Vivevamo meglio allora. Nonostante l'occupazione esistevano rapporti umani quotidiani tra israeliani e palestinesi, non solo scanditi dal lavoro. Gli israeliani potevano andare a Ramallah e i palestinesi a Tel Aviv. Ora che c'è questo muro che nega sul terreno lo Stato palestinese sarebbe meglio che ci fosse uno Stato unico".
Ci infiliamo nelle barre di metallo. "Qualche settimana fa sono tornata indietro - dice Suher - ho avuto problemi con una soldatessa allarmata perché suonava l'allarme". "Mi hanno chiesto di togliermi persino gli anelli, la collana e poi le scarpe. - continua - Io parlo ebraico e potevo comunicare con i soldati. Nonostante questo mi hanno trattata malissimo. Tu pensa cosa succede alle signore anziane che parlano solo arabo, trattate in malo modo da ragazzini. Ho avuto una discussione con la soldatessa e ho preso il telefono per chiamare il portavoce dell'esercito, che sento spesso per il mio lavoro. La ragazza col fucile mi ha urlato di non azzardarmi a telefonare. Così ho fatto marcia indietro. Ho chiamato l'ufficio e il mio capo ha mandato un taxi privato a prendermi. Abbiamo protestato formalmente, ma non è valso a nulla. Questa è la vita di un paestinese".
Suher potrebbe sembrare italiana, araba o anche israeliana. Ha capelli corvini folti, labbra carnose che evidenzia in maniera delicata con un lip-gloss naturale sulla carnagione chiara. Indossa una camicetta attillata bianca su pantaloni neri e nello zainetto tiene il golfino per la sera, quando in autunno la temperatura scende di botto appena dopo il tramonto.
Uscite dal check-point, prendiamo un altro taxi che ci porta all'asilo delle suore che avremmo potuto raggiungere in due minuti se non ci fosse stato il muro. I bambini giocano in cortile all'ombra dei piloni, abbelliti da questo lato dai grandi murales colorati fatti dipingere dalle suore. Sul grigio del cemento è stata passata vernice color vaniglia, su sono successivamente stati dipinti animali, fiori, alberi. Le suore raccontano che quando piove i bambini si bagnano e rischiano di prendersi un malanno perché devono passare a piedi dal varco nel muro. "Noi siamo lì con gli ombrelli, ma, sa sono 52 alunni, non è una cosa semplice", dice una suora di origine egiziana che come le altre parla italiano, ma non vuole che si scriva il suo nome. Le future generazioni di bambini di Azzarie invece che dalle suore della Nigrizia, passeranno l'infanzia in altri asili, dall'altra parte del muro.
Nel 2004, la Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, ha decretato illegale questa berriera i cui blocchi di cemento, che inglobano i palestinesi della West Bank e Gerusalemme in veri e propri "bantustan", raggiungono anche gli otto metri d'altezza. La città di Qalqilia è stata la prima ad essere completamente circondata dal muro. Non a caso di tratta di una zona il cui sottosuolo è ricco di risorse idriche. "Se gli israeliani volevano costruire un muro per la loro sicurezza, perché non lo hanno eretto sulla Green Line? Nessun palestinese si sarebbe lamentato", dice Shurer. Parole che in questi anni abbiamo sentito ripetere da tanti.
"Nel 2003 sono stata a Berlino e sono andata al museo dove ci sono i flimati sul muro", racconta Suher mentre raggiungiamo Gerusalemme est. "Mi sono messa a piangere guardando le immagini di quando quel muro è stato costruito e di come è caduto. Di come la gente ha sofferto. Ed ho pensato, all'epoca, che quella sarebbe stata la mia nuova realtà. Ora che hanno completato il muro accanto a casa mia, è un fatto compiuto. Ma il muro di Berlino è stato costruito quando c'era la cortina di ferro invisibile e il mondo era diviso in due blocchi. Questo muro in Palestina è arrivato nell'era della globalizzazione, in cui ogni barriera è annullata in tempo reale dalla comunicazione tra gente di tutto il mondo. Per questo non riesco a credere che un giorno cadrà. Pensavamo di poterne fermare la costruzione, di poter fermare questo orrore. Invece è tutti i giorni davanti ai nostri occhi. Ecco perché al mattino non mi metto più al sole a bere il caffé".

 

 

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"Vivere a rischio della vita: ho raccontato così i palestinesi"

 

 

 

 

Guido Caldiron
"Questo libro è nato in seguito alla costruzione del muro: è una sorta di omaggio ai lavoratori, agli operai palestinesi, persone di cui nessuno ha mai voglia di parlare, che del muro sono state le prime vittime. La mia scrittura cerca sempre di riflettere le condizioni della gente normale. I media si interessano ai grandi eventi e ai protagonisti della scena politica, prima Arafat ora i leader di Hamas o Abu Mazen o i diversi premier israeliani, ma non si interessano quasi mai ai tre milioni e mezzo di palestinesi che sono le vere vittime dell'occupazione israeliana".
Per scrivere il suo ultimo libro, Murad Murad (pp. 176, euro 14,50), tradotto da Maria Nadotti e pubblicato a settembre da Feltrinelli, Suad Amiry ha trascorso diciotto ore con quei palestinesi, spesso giovanissimi, che ogni giorno all'alba partono dalla Cisgiordania, sfidando checkpoint e ogni sorta di controlli militari, per entrare in Israele alla ricerca di un lavoro. Amiry, un'importante intellettuale palestinese i cui romanzi sono tradotti e apprezzati in tutto il mondo, si è dovuta travestire da uomo e affrontare ogni genere di sforzo, correndo per tutto il tempo il rischio di essere arrestata o ferita. Insieme ai giovani operai la scrittrice ha conosciuto la paura e il pericolo di chi ogni giorno mette in gioco la propria vita solo per superare il muro e guadagnarsi di che vivere in Israele. Decisamente qualcosa di più di una semplice occasiona narrativa, la scoperta di un'altra vita. Come testimonia Suad Amiry a conclusione del suo libro: "Non ci sono parole per esprimere la mia gratitudine nei confronti di Murad e dei suoi amici. Posso dire solo: "Grazie". Questo viaggio ha cambiato radicalmente la mia vita e il mio atteggiamento, facendo emergere la mia rabbia nei confronti di un mondo ingiusto che temo Murad sia destinato ad affrontare da solo. E di questo gli chiedo scusa".

Dopo aver raccontato la vita dei palestinesi attraverso le storie della sua famiglia, perché questa volta ha deciso di cambiare registro calandandosi nei panni di un operaio adolescente?
Mi sono stufata di parlare della mia famiglia. Anche perché libro dopo libro ho rischiato di finire per litigare sia con tutti i miei parenti che con tutti i miei amici. E credo che se scrivessi ancora una sola volta il nome di mio marito in un mio libro finiremmo anche per divorziare noi due. Scherzi a parte, questa volta avevo voglia di raccontare una storia che fosse molto più lontanta da me rispetto al solito. E l'idea per questo libro mi è venuta quando ho conosciuto Murad che è il fratello di un giardiniere che lavora a casa mia a Ramallah. Murad mi ha raccontato della sua vita e del suo lavoro in Israele e delle mille difficoltà che incontrava tutti i giorni: dai controlli ai checkpoint ai datori di lavoro che non sempre lo pagavano. La sua storia mi ha talmente colpito che ho deciso di saperne di più. Così, alla fine, ho cercato di capire come potesse guardare il mondo oggi un adolescente palestinese.

Al fondo del libro sembra esserci un quesito su cosa possa rappresentare "la normalità" in un simile contesto: che cosa è oggi normale per i palestinesi?
Sì, effettivamente è questo uno degli elementi più importanti del libro. Fuori dalla Palestina in molti non sembrano comprendere davvero cosa rappresenti e significhi concretamente l'occupazione israeliana. Tutti pensano subito agli attacchi su Gaza, a scontri armati, a gente che muore, mentre invece il cuore dell'occupazione è un altro: il fatto che le persone sono private di una vita normale. Tra i palestinesi nessuno può davvero sapere che cosa accadrà da un momento all'altro. Si esce di casa per recarsi in un luogo che, sulla carta, dista una ventina di miuniti in macchina. Beh, nessuno di noi può dire se gli ci vorranno davvero venti minuti o magari venti ore... Ci sono i checkpoint, i controlli e via dicendo. Un altro esempio. Al mattino mandi tuo figlio a scuola ma non sai se arriverà in tempo per le lezioni o se arriverà del tutto, potrebbe infatti finire bloccato da un controllo militare per tutto il giorno. Perciò proprio la ricerca di una "vita normale" diventa spesso il bene più prezioso e desiderato dalle nostre parti.

Che cosa ha rappresentato negli ultimi anni la costruzione del muro in un simile contesto?
Il muro è stato un vero dramma, ma il problema è ancora più ampio. Mi spiego. Israele modifica continuamente lo spazio in cui viviamo. Tutti i giorni cambia la direzione di marcia di una strada, l'accesso a un centro da un lato piuttosto che dall'altro, la percorribilità di una via. Senza preavviso cambia tutto dalla sera alla mattina. Improvvisamente ci si trova davanti a un altro pezzo di muro, a un nuovo insediamento di coloni, a una barriera di filo spinato e così senza fine. Dieci anni fa per il mio lavoro di architetta mi spostavo molto e molto spesso e conoscevo strade e scorciatoie per arrivare da una città palestinese all'altra. A partire dal 2000 sono stati moltiplicati i checkpoint e, parallelamente a questo, le autorità israeliane hanno cominciato a sviluppare una sorta di circuito stradale parallelo: una rete di strade riservate ai palestinesi, un'altra agli israeliani. Così oggi per me è diventato quasi impossibile spostarmi senza dover chiedere informazioni sulla strada a ogni incrocio. Così non c'è alcuna "normalità" nello spazio che occupiamo. Nel film Nuovo cinema paradiso un'intera cittadina insorge contro l'abbattimento dell'edificio che ospitava la sala cinematografica, in Palestina ci scompaiono sotto gli occhi ogni giorno strade, edifici, confini e finiamo così per sentirci come degli estranei a casa nostra. Ecco, questa è la nostra "normalità".

Crescendo in queste condizioni quale realtà può immaginare per il proprio futuro un ragazzo come Murad: una guerra senza fine, una pace giusta?
Prima di ripondere devo chiarire una cosa. Per scrivere questo libro ho avuto l'opportunità straordinaria di vivere diciotto ore in mezzo a questi ragazzi, seguendo una loro giornata e tutto ciò che gli accade normalmente. Anche perché non ci si deve dimenticare mai che la nostra è una nazione molto giovane: Murad rappresenta il 75% della popolazione palestinese e perciò il suo non è certo un caso isolato. Per quello che vivono ogni giorno è chiaro che questi ragazzi non possono guardare con grande fiducia al futuro, eppure è davvero straordinaria la loro forza e la loro determinazione che credo rappresenti un po' lo spirito di un intero popolo che, malgrado le proprie condizioni di vita, continua a non perdere la speranza.

La vita di questi ragazzi è però molto diversa dalla sua, lei è un'intellettuale cosmopolita che ha viaggiato e lavorato in tutto il mondo, loro sono quasi prigionieri della Palestina. Che cosa vi unisce e cosa tiene ancora insieme una società che appare sempre più divisa, basti pensare alla contrapposizione tra Hamas e Anp?
Che cosa tiene insieme una società? E' sempre difficile rispondere a questo quesito visto che ovunque ci sono profonde differenze sociali tra i cittadini dello stesso paese. Per ciò che riguarda la Palestina credo però sia in qualche modo più facile rispondere, nel senso che l'occupazione israeliana tiene ancora insieme i palestinesi. E' chiaro che la mia esperienza di vita è molto diversa da quella di questi giovani operai: alla fine del libro l'ho anche scritto, dopo aver passato diciotto ore con questi ragazzi ho sentito il bisogno di tornare alle comodità della mia vita borghese, mentre Murad è rimasto da solo.

 

 

La scrittura
per raccontare
un popolo

 

 

 

 

Suad Amiry è un'architetta palestinese, fondatrice e direttrice del Riwaq Center for Architectural Conservation a Ramallah. Cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo, ha studiato architettura all'American University di Beirut e all'Università del Michigan, specializzandosi infine a Edimburgo. Dal 1981 insegna architettura alla Birzeit University e, da allora, vive a Ramallah. E' autrice di una serie di libri pubblicati in Italia da Feltrinelli: Sharon e mia suocera. Diari di guerra da Ramallah, Palestina (2003), Se questa è vita. Dalla Palestina in tempo di occupazione (2005), Niente sesso in città (2007).

 

 

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Cresce la scena musicale giovanile nella West Bank e nella Striscia di Gaza

 

 

 

 

Palestinesi underground
Contro l'occupazione e la cultura commerciale

 

 

 

 

Cristina Petrucci
Quando si parla di Palestina, quello che viene raccontato sono sempre i leader politici e gli accordi con il Governo israeliano. I telegiornali di tutto il mondo si affannano a reperire immagini da mandare in prima serata dei corpi martoriati dall'ennesimo bombardamento, le parole dei giornali si inseguono sempre uguali ormai da troppi anni. Eppure dietro a tutto questo ci sono delle persone, molto spesso giovani, ragazzi e ragazze che cercano di vivere in maniera normale e che provano come tutti a trovare dei canali di sfogo nell'arte. Sia essa cinematografica, musicale, teatrale o performativa.
Difficilmente si da spazio a tutto questo, raramente ne leggiamo, mai riusciamo a vederne un video su Mtv. Eppure la scena musicale nella West Bank come nella Striscia di Gaza è sempre più fiorente di giovani artisti. In particolare nella scena hip hop.
I BadLucK vengono dal campo profughi di Deheishe nella provincia di Betlemme. Sono cresciuti in uno dei pochi centri giovanili di tutta la Palestina, l'Ibdaa. E' qui che iniziano a comporre più di trenta canzoni che parlano di politica, società e della storia dei rifugiati, specialmente del diritto al ritorno di quelli che dal 1948 sono stati costretti ad andare via. Ahmad, Diya, Soud, Mohammad e Hesham stanno cercando di registrare il loro nuovo album. Ma perché questo nome, che significa "sfortuna"? "Per noi vuol dire tutto, racconta un po' tutta la nostra storia sia personale che della popolazione palestinese dalla cacciata del ‘48, la prima e la seconda Intifada, il bombardamento su Gaza. La cattiva sorte ha un po' caratterizzato la storia della popolazione palestinese. Per quanto riguarda la band riguarda proprio la nostra condizione iniziale perché suonavamo per strada e nessuno ci ascoltava, messi all'angolo. Ma questo fu l'inizio perché oggi non è così, queste stesse persone ci appoggiano, ci supportano, ci sostengono".
Questi ragazzi sono riusciti a guadagnarsi l'appoggio della popolazione soprattutto perché in una loro ultima canzone hanno saputo esprimere quello che provavano davanti al bombardamento di Gaza: "Attraverso questa canzone abbiamo mostrato la nostra vicinanza alle persone sotto assedio, in un momento in cui tutti sarebbero voluti andare a dare una mano per la resistenza ma non potevano perché eravamo nella West Bank e le due popolazioni non si possono vedere. Ma attraverso le nostre parole abbiamo cercato di cantare e gridare ad alta voce che tutti eravamo Gaza".
Certo non deve essere facile neanche per i BadLuck che a tutt'oggi vivono in un campo profughi: "La nostra vita è una vita sotto occupazione e quindi partiamo dal presupposto che viviamo una situazione veramente negativa, tendenzialmente la vita può essere anche noiosa nel campo perché non c'è molto da fare. Nella quotidianità quello che facciamo è vedere jeep, mezzi militari che attraversano il campo anche sparando. Quindi abbiamo una vita che potrebbe essere definita "in gabbia"".
I tre ragazzi sono molto giovani, oggi hanno diciassette anni ed hanno iniziato a rappare a soli 12 anni. "A quel tempo ci sembrava difficilissimo immaginare di poter iniziare a cantare e fare un gruppo. Però eravamo tutti innamorati della musica hip hop. Quindi abbiamo iniziato da questo nostro desiderio: cantavamo per strada e facevamo delle rime. Adesso nel campo non facciamo solo musica ma ci occupiamo anche di un workshop con i bambini a cui insegniamo a scrivere, insegniamo a stare sul palco, a stare con le persone e naturalmente anche a fare musica hip hop. Questi bambini che vengono al nostro workshop hanno il supporto delle famiglie perché anche loro hanno capito che attraverso la musica si può cambiare qualcosa. L'hip hop e la musica sono diventati per noi una forma di resistenza all'occupazione che ci permette di non rimanere chiusi nel campo ma in qualche modo di muoverci e andare oltre i confini che ci sono stati disegnati intorno, da altri. Per cui collaboriamo con molti gruppi sia dentro che fuori la West Bank: egiziani, tedeschi, statunitensi. Per quanto riguarda la West Bank stiamo collaborando molto con i Ramallah Undergrond con cui stiamo lavorando ad un pezzo che si chiama "Your senses" (i tuoi sensi)".
Il gruppo Ramallah Underground nasce nel 2003 durante la Seconda Intifada proprio nella capitale della Cisgiordania, dove fa tuttora base. Inizialmente Ramallah Underground è soltanto un sito che vuole raccogliere gli artisti e le produzioni del luogo, principalmente musica e arte visuale. In seguito i Ru si fanno strada come band. Pur mantenendo aperto il sito per i giovani artisti, Boikutt, Stormtrap e Aswatt combinano musiche che spaziano dall'elettronica, l'hip hop, il trip hop fino al downtempo con sonorità tipiche della tradizione araba e palestinese. Il risultato è una nuova melodia, sicuramente mai sentita prima, motivo del loro successo. "Abbiamo iniziato come produttori con tanti generi musicali diversi poi nel 2003 siamo diventati i Ru. Il nostro scopo iniziale è stato proprio quello di cercare di motivare le persone, con i nostri testi, ad uscire da casa a stare nelle strade. Perché in Palestina si respira un'atmosfera molto negativa. Bisogna invece essere più positivi nella capacità di resistere e lottare. Una nostra canzone parla proprio del modo in cui i politicanti influenzano le nostre vite ci piaccia o meno, la politica ci circonda e ci segue ovunque, non puoi farne a meno. Perché ti alzi la mattina e non puoi uscire di casa, non puoi andare a trovare una persona e non puoi andarti a comprare da mangiare. Quindi questa è la situazione e ti piaccia o meno con questo ti devi misurare".
Ma le loro liriche sono rivolte anche al mondo dell'hip hop. "Parliamo anche molto della musica commerciale, per esempio contro quel tipo di hip hop che parla solo di cazzate o serve solo per fare soldi: l'hip hop senza una causa non è musica ma è qualcosa che la musica la uccide". Da qui anche la scelta di dare voce e spazio all'intera cultura underground di Ramallah: "La scena underground è ancora piccola, ma sta cominciando a crescere ora. C'è sicuramente una scena musicale underground, ma sotto il profilo dell'hip hop si sta sostanziando un po' di più adesso, anchese in maniera molto lenta. Fare undergrond a Ramallah significa essere diversi, il 90% della musica è musica commerciale e pop in cui si usano quattro parole in tutto il pezzo. Essere underground vuol dire appunto provare a proporre un punto di vista alternativo, provare a mandare un messaggio. Noi facciamo questo e diciamo questo".
E i Ramallah Underground fanno tutto ciò non solo attraverso le parole, ma anche attraverso il video: "Il ruolo dei visual nei concerti serve a descrivere a chi non parla arabo quello che vogliamo dire con i testi. L'immagine è un modo interessante, più astratto, più complesso". Ai Ramallah è infatti legato Ruanne Abou-Rahme, autore del documentario Double Exposure : "E' un film sulla terza diaspora palestinese. Dopo quella del ‘48 e quella del ‘69 c'è adesso una nuova generazione che ha dovuto lasciare il paese e che si trova in qualche modo in una terra di mezzo. In una condizione esistenziale per cui non ti senti più a tuo agio, non ti senti più bene né a casa né fuori. Questo crea una continuità fra le generazioni, salvo che i mezzi di espressione sono cambiati. Grazie a Internet e a tutte queste nuove tecnologie alla portata dei giovani, in Palestina l'espressione artistica è diventata più diffusa".


Liberazione, 22/11/2009

 

 

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